Al di là c’è una camera da letto. È illuminata da una lampadina da sessanta watt. Le imposte sono aperte, fuori è notte e la sveglia sul comodino segna le cinque. A letto c’è una partoriente, geme, strizza gli occhi e spinge la testa indietro sul cuscino. È mia madre Rosanna.
La levatrice, con un grembiule bianco, è seduta sul letto e le tiene la mano accarezzandola. Un’altra donna, cinquant’anni, corpulenta, entra nella stanza portando degli asciugamani, profumano di sapone Marsiglia. La camera è bianca e arredata con mobili di noce scuro: un armadio, una cassettiera, due comodini e il letto.
Sulla cassettiera ci sono un vaso con dei narcisi gialli e un giornale. Il profumo dei fiori si mescola a quello erbaceo del Marsiglia. Il giornale porta la data del 18 marzo 1953. In prima pagina: Guerra di Corea, a giugno inizieranno i colloqui di pace a Panmunjon.
Sono dietro alla donna più robusta. Ha la testa tonda, i capelli raccolti in una crocchia sulla nuca. Quando si gira, riconosco mia nonna Carmelina.
Mia madre, ha ventidue anni e il viso di una bambina, tondo e paffuto.
Mi avvicino e cerco di toccarle il braccio, ma la mano passa attraverso il corpo. “Come è possibile?” chiedo. Nessuno mi risponde.
La levatrice le dice: ”Va tutto bene Rosanna. Quando te lo dico, spingi”.
“Ecco, spingi”. Il viso di mia madre si contrae per lo sforzo, ha i capelli sudati e appiccicati alla testa.
“Spingi ancora”.
Chiude gli occhi, porta la testa in avanti e trattiene il fiato.
“Va bene Rosanna, è tutto a posto, adesso l’ultimo sforzo. Dai spingi”. Esce la testa. “Eccolo, eccolo Rosanna. E’ nato. Stenditi e riposa ora”.
I primi vagiti e ancora la voce della levatrice: “È maschio, è a posto, pesa tre chili. Come lo chiamate?”. Mia madre alza la testa, con fatica: “Lo chiameremo Massimo!”. Sulle sue guance scendono due lacrime.
Anch’io piango, come quando è nato mio figlio.