“A poco a poco, fidarsi”

di Michela Molin (Scavo 2017)
Medellin settembre 2004
Siamo arrivati in Colombia da quattro giorni. All’aeroporto di Bogotà, Gabriel ci aspetta con il cartello dell’Associazione con la quale abbiamo intrapreso il lungo viaggio iniziato quasi quattro anni fa.
​Dopo tre giorni riprendiamo l’aereo per Medellin e arriviamo da Meri che ci ospiterà per i prossimi venti giorni. Ci cambiamo, ci mettiamo eleganti e via a piedi verso l’Istituto de Benestar Familiar. Mio marito ha il vestito del matrimonio – sono passati nove anni – e io quello della mia laurea: gonna e giacca nera, camicia bianca e scarpe con il tacco. Per l’ansia dell’attesa, mi è diventato tutto largo.
“Avete portato con voi il regalo?” chiede Meri. 
Ma come si fa a portare ad un bambino un orsacchiotto di peluche a forma di zainetto? E allora ecco i due fiondarsi al primo negozio per trovare qualcosa di adatto: un camion con sopra tre automobiline una blu, una rossa e una gialla.

I momenti che seguono all’incontro stanno ancora tutti nella parte di me che protegge e cura. Anche dentro quella parte generativa, quell’utero che pur non avendo partorito ha sentito, ha nutrito, ha curato. Quella parte di me che non riesce ancora a dar voce, a trasformare in parola emozioni e sentimenti così forti, così struggenti, così dolorosi che sembrano vicini alle doglie di una partoriente, doglie che non ho mai provato.
Come avrei voluto gridare! Come avrei voluto poterlo fare, come vorrei farlo ora!
Un grido accolto da qualcuno, un grido riconosciuto. Dov’è l’ostetrica, dov’è il ginecologo? 
Dolore misto a gioia, dolore che si dimentica dolore di chi accoglie alla vita e lascia andare alla vita.
Ma è dolore anche quello che si prova quando si accoglie la rabbia di una creatura di pochi anni, una creatura che non si fida. 

Il nostro autista Oscar con il suo taxi giallo è li che aspetta. Ha un portamento sereno, abiti modesti ma puliti, così come la tua auto che è vecchia ma tenuta come un gioiellino. Di situazioni come la nostra chissà quante ne ha viste. E’ lui che ci accompagna per tutti i giorni seguenti a Medellin: girare in autobus o a piedi è pericoloso. Gli infissi hanno tutti le inferriate e davanti ad ogni edificio c’è una guardia armata. Eppure tra le strade, ai semafori, ci sono venditori ambulanti che offrono cibo appena cucinato e ancora fumante. Donne e uomini con cesti colmi di mango, papaia, fragole e frutti di ogni tipo ti fermano per vendere la loro merce. In quei giorni viviamo di frutta e di cibi di strada. 
Oscar ci spiega quello che vediamo dai finestrini dell’auto, risponde alle nostre domande in italiano. In spagnolo rassicura il piccolo che tengo tra le braccia. 

Piano piano, come un bambino che compie i suoi primi passi, prova a fidarsi.
​Sarà, come per chi comincia a camminare, il raggiungimento di una sicurezza definitiva, di un passo sicuro? Chissà… forse da qualche parte, forse per tutta la vita torneranno insidie, ritorni, inciampi nel percorso più profondo di una creatura che ha  conosciuto il trauma,  il buio dell’abbandono. 
O sarà forse possibile nell’incrocio con altri occhi, lasciarsi lentamente abbandonare ad altre braccia. Diventare persona amata e che ama.


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