Come ti chiami?

Quanto importante è il nome che ci portiamo addosso, e in generale il nome proprio?

Bachelard dice che:

È solo attraverso il racconto altrui che noi abbiamo conosciuto la nostra unità. Sul filo di una storia narrata da altri, giungiamo, anno dopo anno ad assomigliarci e condensiamo tutti gli esseri che siamo stati intorno all’unità del nostro nome.

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“Il pensatore”, Giorgio De Chirico, 1973 (particolare – sum sed quid sum/io sono quello che sono)

Il nome identifica, differenzia, rende esclusivo. Probabilmente anche i tuoi genitori si sono arrovellati per giorni, mesi, pensando a come chiamarti e anche tu farai così con i tuoi figli, la tua cagnolina, il tuo canarino. Un tempo era più semplice: si sceglieva il nome del nonno, di un parente emigrato in Australia, una nonna poetessa. Ora esistono pacchi di libri con elenchi di nomi, anche strampalati, a cui si aggiungono quelli degli ‘eroi’ della televisione e dello spettacolo.

Non si conoscono che le cose che si addomesticano (…). Va’ a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo”, disse la volpe al piccolo Principe (di A. De Saint-Exupéry).

Il nome: poche lettere in cui crediamo sia racchiusa la nostra essenza. Se a pronunciarlo è una persona ‘importante’, sembra perfino di venire investiti di contenuti nuovi. Così, viceversa, pronunciare il nome di un amore, diventa complicato per ciò che rappresenta.

Ecco un raccontino prodotto durante i laboratori de Il Portolano:

Il nome dell’amore, il nome di Dio

Alessio, il mio figliolo, mi ha detto che gli piace una ragazzina. E come si chiama? Chiara, mi ha detto. L’ha pronunciato piuttosto bene. Credo che sia perché ancora non la ama. O non la ama abbastanza.
Quando si ama, il nome dell’amato è impronunciabile. Prima è un nome qualunque e all’improvviso, quando scatta il meccanismo, il nome diventa impronunciabile. Il terreno delle parole diventa scivoloso. E anche un poco comico. Fa venire la ridarella.
Marco, ad esempio. Non è un po’ strano come nome? Io trovo che il nome del mio amore, Marco, sia molto strano e difficile da pronunciare.
A volte, per testare il mio amore provo a articolare il suo nome ad alta voce. Se il dittongo è uno stiramento anomalo delle ganasce e il finale, un suono grottesco come quello di un tacchino o di una bestia non ancora inventata da dio, ecco, in questo caso, capisco che ancora l’amore risplende.
Una cosa sconosciuta e immensa, di cui solo io conosco i segreti. Dovevo nascere io per capirne le implicazioni.
Quando dico il nome, esotico misterioso, mi ritraggo un poco, come quando mi fanno un complimento. Non voglio pronunciarlo troppo: mi sembra ogni volta di rubare qualcosa a qualcuno. Forse… a me stessa? Dico Marco e tac! sottraggo un pezzetto all’eterno, apro uno squarcio nel segreto e nell’illimitato dove anche gli altri possano sbirciare. Impossibile! Gli altri mica capirebbero!
Ogni giorno faccio la prova davanti allo specchio. Fin’ora tutto tiene.
Ma quando capiterà che il sapore di quel nome sarà uguale a quello di finestra o di pavimento o di bricco di latte, ecco, se da Marco, non uscirà nulla più che una sequenza neutra di lettere, come temperino, allora, in quel momento, capirò che il segreto era solo l’ennesimo inganno e tra noi sarà tutto è finito. (Bianca Sambo)

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