L’amore che mi resta, di Michela Marzano

Recensione a cura di Alberto Trentin
ANTIGONE:      
So che morì di una morte tristissima
La figlia di Tantalo, Niobe la frigia
Sulla cima del monte Sipilo.
Come edera tenace l’avvinghiarono le rocce e la pietrificarono.
Ma non cessa la pioggia su lei che si strugge
Né la neve. Così narra la leggenda.
Bagna le giogaie montane
Col pianto che scorre dal ciglio.
Ahimè, un dio mi riserva
La stessa identica sorte!
 
CORIFEO:
Diva ella era, e di stirpe divina,
tu mortale sei, d’uomini stirpe.
Si legge, ad un punto del romanzo, che manca, nella nostra e in molte altre lingue occidentali, un termine capace di nominare un genitore a cui sia morto il figlio; non c’è un sostantivo pari a “orfano” o a “vedovo”. Rimane dubbio se questa sia o meno una mancanza avvertita, significativa. Nella nostra lingua, ad esempio, sono stati utilizzati alcuni termini per sopperire a questa lacuna, sebbene in modo forzato: si può dire orfano del figlio (o di un figlio), usufruendo del significato più generale del termine (privato di una persona cara); oppure orbo e orbato, entrambi ricorrenti in letteratura, sebbene il primo abbia nel tempo assunto il significato che noi comunemente gli attribuiamo (privo della vista), e il secondo – inizialmente dotato di un significato generico di privo di qualcosa o qualcuno di caro – sia stato nel tempo abbandonato.
È vero dunque che la nostra lingua non possiede un termine specifico e ricorre preferibilmente a una locuzione, forse anche perché si tratta di una condizione che, storicamente, non assumeva quei caratteri di eccezionalità e disordine che invece la contraddistinguono ai nostri giorni.
Se la morte è per tutti quell’evento eccezionale, straordinario, che lascia atterriti e attoniti, generando un’ombra lunga che dobbiamo necessariamente elaborare per non soccombervi, essa crea caos quando eccede quello che di naturale ha, quando cioè non segue la scansione temporale che prevede, generalmente, che si muoia vecchi, per cause naturali, e soprattutto dopo i propri genitori.
Rispetto a questi due fuochi, il romanzo allude all’impossibilità di comprendere la morte nella vita qualora si cerchi di ricercarne una ragione, un motivo che, nel caso specifico, è anche un movente se è vero che il suicidio è un omicidio commesso verso se stessi. Com’è possibile allora che la morte accada per propria volontà? Perché darsi la morte? Perché mia figlia si è uccisa? Daria rimane ferma sotto l’ombra gettata da questa domanda, ferma davanti al silenzio del mondo che non risponde o che risponde in modo incomprensibile come accade durante un breve incontro tra Daria e un prete. Per costui – e dovrebbe esserlo per ogni cristiano – la morte di un figlio non può che rientrare nella complessiva organizzazione delle cose voluta da Dio nella sua indefettibile potestà; è un fatto tra gli altri fatti di cui è vano cercare di dar conto, dato che lo stesso Dio ha sacrificato il figlio e dato che a tutti, come a Cristo, sarà concessa la resurrezione. Daria non acconsente, non può acconsentire persa com’è a fissare il buco del mondo che le si para davanti, col quale deve confrontarsi e che ripete in modo apparentemente ineluttabile qualcosa di già vissuto, una separazione antica subita dalla Daria bambina e che, specularmente, ripete quello stesso senso di vuoto esperito in silenzio (silenzio per Daria personaggio e silenzio contemporaneo anche per il lettore, ellitticamente all’oscuro dell’antefatto) da Giada quando scopre la sua radicale separazione.

Ma si sbagliava. Aveva torto. Torto marcio. Quale scrittore potrebbe mai raccontare la tua storia, Giada? Chi avrebbe l’arroganza di dare un senso alla tua morte?

Arroganza e torto nel tentativo di raccontare, quindi di tessere una trama, di mostrare uno schema, di fare senso. Eppure il senso oltrepassa il significato, al quale la protagonista sta aggrappata senza apparente rimedio. Daria vuole sapere e sapendo vuole capire e capendo giustificare. Il senso non è mai una ragione, più ragioni. La morte non è un rapporto, una misura, è sempre un resto, un lascito d’ombra che si stende, la morte è il lenzuolo, un adagio improvviso, un dolore refrattario al dolore degli altri, ad essi incommensurabile. Una morte non si spiega, rifugge il significato inteso come sapere, la morte ha a che fare con la verità silenziosa a cui si arriva per necessità attraverso il frastuono delle parole. Le parole che mettono ordine, come Andrea (filosofo) cerca di raccontare e spiegare a Daria; qui acquista volore narrativo il fatto che manchi una parola nelle lingue occidentali capace di nominare un genitore che perde il figlio, qui si mostra l’incommensurabile e paradossale oscenità della morte di un figlio, lo stravolgimento dell’ordine naturale delle cose.
Di pari oscenità sono le domande che stringono Daria in una morsa, screziando senza soluzione di continuità Il silenzio in cui vorrebbe chiudersi; il romanzo è carico di domande che smettono quasi sempre di fare ciò che dovrebbero fare, e cioè mettersi in attesa di risposte, attendere l’apertura di nuovi orizzonti di senso; nel romanzo le molte domande (di Daria, a Daria) cadono insoddisfatte, fuori scena, ratificando in modo perverso quel divieto materno, subito da Daria durante l’adolescenza, contro le sue «parole in libertà». Nessuna parola in libertà dunque perché nelle parole giace ineluttabile la possibilità di dire di tutto, anche l’indicibile, anche la morte. Daria vive il proprio lutto senza saperlo fare, perché sua madre ha archiviato in fretta l’indicibile della propria sofferenza:

Quando è morta mia nonna, mia madre è stata schiacciata dal dolore. Poi, dopo un paio di settimane, ha ricominciato a portare la roba in lavanderia e a preparare la cena. Si è ricordata che le era scaduta la carta d’identità e l’ha rinnovata. Ha organizzato le vacanze estive e si è fatta cucire un vestito dalla sarta.
Con sua cugina ha svuotato gli armadi e gli scaffali: da una parte le borse e le sciarpe, dall’altra le gonne e le camicie. E quando le ho chiesto lo scialle grigio, quello con cui mia nonna si sedeva in poltrona per lavorare a maglia, mi ha risposto che era veccio e infeltrito, meglio buttarlo via. «Cosa fatta, capo ha», mi ha detto. Come ogni volta che mi sorprendeva  rimuginare. «Vieni, usciao, ché ti cambi le idee». Nenache la morte fosse cosa da archiviare in fretta e furia. Cambiandosi le idee. Una cosa dopo l’altra. Un’idea dopo l’altra. Così faceva lei.

Non è così per Daria, che riesce a far tacere il rovello continuo oltrepassando il divieto materno e sostituendo alla meccanica giustapposzione di eventi e fatti, un racconto, che è poi il racconto del proprio dolore. Se par la madre di Daria ogni cosa fatta capo ha, Daria evolve mettendo in discussione questo assunto così da sostituire finalmente alla nomenclatura materna una propria storia e poter finalmente rispondere con sincerità alla principale e ultima domanda dell’intero romanzo:
“Ma quando sei venuta a prendermi era perché volevi una bambina o perché mi volevi bene?”

Michela Marzano, “L’amore che mi resta”, pp. 244,  € 17,50, Einaudi, 2017

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