So che morì di una morte tristissima
La figlia di Tantalo, Niobe la frigia
Sulla cima del monte Sipilo.
Come edera tenace l’avvinghiarono le rocce e la pietrificarono.
Ma non cessa la pioggia su lei che si strugge
Né la neve. Così narra la leggenda.
Bagna le giogaie montane
Col pianto che scorre dal ciglio.
Ahimè, un dio mi riserva
La stessa identica sorte!
CORIFEO:
Diva ella era, e di stirpe divina,
tu mortale sei, d’uomini stirpe.
È vero dunque che la nostra lingua non possiede un termine specifico e ricorre preferibilmente a una locuzione, forse anche perché si tratta di una condizione che, storicamente, non assumeva quei caratteri di eccezionalità e disordine che invece la contraddistinguono ai nostri giorni.
Se la morte è per tutti quell’evento eccezionale, straordinario, che lascia atterriti e attoniti, generando un’ombra lunga che dobbiamo necessariamente elaborare per non soccombervi, essa crea caos quando eccede quello che di naturale ha, quando cioè non segue la scansione temporale che prevede, generalmente, che si muoia vecchi, per cause naturali, e soprattutto dopo i propri genitori.
Rispetto a questi due fuochi, il romanzo allude all’impossibilità di comprendere la morte nella vita qualora si cerchi di ricercarne una ragione, un motivo che, nel caso specifico, è anche un movente se è vero che il suicidio è un omicidio commesso verso se stessi. Com’è possibile allora che la morte accada per propria volontà? Perché darsi la morte? Perché mia figlia si è uccisa? Daria rimane ferma sotto l’ombra gettata da questa domanda, ferma davanti al silenzio del mondo che non risponde o che risponde in modo incomprensibile come accade durante un breve incontro tra Daria e un prete. Per costui – e dovrebbe esserlo per ogni cristiano – la morte di un figlio non può che rientrare nella complessiva organizzazione delle cose voluta da Dio nella sua indefettibile potestà; è un fatto tra gli altri fatti di cui è vano cercare di dar conto, dato che lo stesso Dio ha sacrificato il figlio e dato che a tutti, come a Cristo, sarà concessa la resurrezione. Daria non acconsente, non può acconsentire persa com’è a fissare il buco del mondo che le si para davanti, col quale deve confrontarsi e che ripete in modo apparentemente ineluttabile qualcosa di già vissuto, una separazione antica subita dalla Daria bambina e che, specularmente, ripete quello stesso senso di vuoto esperito in silenzio (silenzio per Daria personaggio e silenzio contemporaneo anche per il lettore, ellitticamente all’oscuro dell’antefatto) da Giada quando scopre la sua radicale separazione.
|
Di pari oscenità sono le domande che stringono Daria in una morsa, screziando senza soluzione di continuità Il silenzio in cui vorrebbe chiudersi; il romanzo è carico di domande che smettono quasi sempre di fare ciò che dovrebbero fare, e cioè mettersi in attesa di risposte, attendere l’apertura di nuovi orizzonti di senso; nel romanzo le molte domande (di Daria, a Daria) cadono insoddisfatte, fuori scena, ratificando in modo perverso quel divieto materno, subito da Daria durante l’adolescenza, contro le sue «parole in libertà». Nessuna parola in libertà dunque perché nelle parole giace ineluttabile la possibilità di dire di tutto, anche l’indicibile, anche la morte. Daria vive il proprio lutto senza saperlo fare, perché sua madre ha archiviato in fretta l’indicibile della propria sofferenza:
|
“Ma quando sei venuta a prendermi era perché volevi una bambina o perché mi volevi bene?”
Michela Marzano, “L’amore che mi resta”, pp. 244, € 17,50, Einaudi, 2017