Stiamo camminando per i campi fino a raggiungere il fiume, i fiori mi sfiorano il viso, un profumo intenso di camomilla mi entra dalle narici fin sui polmoni, attorno anche papaveri rossi, fiordalisi viola, tarassaco giallo e soffioni.
La mano continua a tenere la mia, siamo in un luogo molto scuro, un profumo di incenso sembra quasi soffocarmi, ma non è poi così cattivo, tante persone che ripetono frasi con voce molto bassa e non ridono.
Quando la mamma prepara la spremuta, so che di lì a qualche ora la sua mano forte mi accompagnerà da un signore con il camice bianco, che mi aprirà la bocca e infilerà una stecca di legno simile a quella del ghiacciolo.
Sento la sua voce: “dai andiamo, vieni con me”. No non è un obbligo, dopo queste parole questa mano accadono sempre cose belle.
L’estate è calda, l’oscurità della sere invernali lascia spazio a giochi nel dopocena, la sua mano mi invita nel cortile di casa: bandiera, città, l’uomo nero. Insieme ai miei cinque fratelli e altri ragazzi, si finisce sempre con discussioni per decidere chi era il vincitore.
Era la mano di mio padre.
Nel garage aveva attrezzato una falegnameria dove, per racimolare qualche soldo in più, costruiva piccoli mobili per i vicini.
Rimanevo ore a guardare e ad aiutarlo, le sue mani prendevano con sicurezza la pialla, la sega e il martello. I trucioli di legno saltavano come il pop corn preparato dalla mamma. Il legno sotto tanto vigore prendeva le forme volute.
Una mano presente anche in adolescenza e in altri momenti importanti della mia vita, una mano forte e robusta.
Dopo diversi anni, nell’azienda fondata con i fratelli, veniva spesso ad aiutarci. Lo sentivo dietro di me, ormai anziano, accarezzarmi i capelli e chiedere: “Come va, come stai?”
Una lunga e dolorosa malattia ci separò fisicamente, fu una gioia negli ultimi istanti accarezzare i suoi capelli radi.
A tenere la sua mano, in quegli istanti, c’ero io.