Recensione a cura di Alberto Trentin
Il nuovo romanzo di Marco Franzoso è un racconto sul tempo che definiamo, seguendo Aristotele, la misura del movimento secondo un prima e un poi.
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A metterci sull’avviso basterebbe il titolo, in cui ha pieno risalto il verbo camminare. Movimento e sguardo dall’alto delimitano il ritmo del romanzo costruito da Franzoso come continuo rimando tra passato (più o meno distante) e presente, raccontati attraverso gli occhi di Bruno, protagonista indiscusso della storia; è il collettore deputato a tenere assieme gli altri personaggi, gli eventi e i luoghi attraverso la sua memoria e le sue parole capaci di costituirsi in una narrazione che riesce a districare una sorta di filo che rilega i detriti di una famiglia che pare essersi disfatta. Parte di questi detriti sono, eccezionalmente, fatti dai rimagli lasciati dai racconti di altri, storie dette nel tempo da vari attori che assumono a turno la figura del care giver: lo zio, la mamma, la nonna, ancora la mamma. È soprattutto il passato ad essere narrato poiché ricostruito e descritto nel ricordo che emoziona; il presente si concede meglio nell’immediatezza dei dialoghi che paiono però spesso tradire in una certa affettazione l’uso volutamente anti-mimetico che ne fa l’autore, come a voler riproporre e sviluppare l’idea tolstojana che apre Anna Karenina: nei dialoghi dilatati e a volte apparentemente privi di senso emerge un tipo specifico di dolore difficile da nominare.
Franzoso pone a tema la morte, la separazione, la distanza, il rifiuto; poi ancora il silenzio inteso come mancanza di parole e, più in profondità, come incapacità di dire; infine la riconciliazione, come esito di un ultimo sforzo e condiviso.
Franzoso ci consegna un romanzo sapientemente strutturato, il cui pregio maggiore agli occhi di chi scrive sta nella perizia con cui viene maneggiato il linguaggio, unica cosa che conta e che resta tra le tumultuose vicende; un linguaggio che si modifica mano a mano che Bruno cresce, che le cose accadono e lasciano tracce, che i personaggi appaiono o scompaiono. I dialoghi sono lo specchio di questo movimento, riflettono il ritmo del prima e del poi, consegnano al lettore la trama di una storia familiare complicata, minata come spesso accade dal diffondersi virulento delle ombre di un segreto, che come tale preclude ogni possibile salvifica elaborazione.
Franzoso pone a tema la morte, la separazione, la distanza, il rifiuto; poi ancora il silenzio inteso come mancanza di parole e, più in profondità, come incapacità di dire; infine la riconciliazione, come esito di un ultimo sforzo e condiviso.
Franzoso ci consegna un romanzo sapientemente strutturato, il cui pregio maggiore agli occhi di chi scrive sta nella perizia con cui viene maneggiato il linguaggio, unica cosa che conta e che resta tra le tumultuose vicende; un linguaggio che si modifica mano a mano che Bruno cresce, che le cose accadono e lasciano tracce, che i personaggi appaiono o scompaiono. I dialoghi sono lo specchio di questo movimento, riflettono il ritmo del prima e del poi, consegnano al lettore la trama di una storia familiare complicata, minata come spesso accade dal diffondersi virulento delle ombre di un segreto, che come tale preclude ogni possibile salvifica elaborazione.
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C’è un grande assente in questa famiglia ed è il Padre. È parte di molta riflessione contemporanea l’analisi dell’evaporazione della figura paterna e in questo romanzo ne percepiamo ed esperiamo una declinazione che ci è nota. Un abbandono che ad un certo punto, silenzioso, accade. Silenzioso perché evidentemente taciuto dal narratore che piuttosto ne accenna parlando d’altro e d’altri, lasciando erompere la rabbia della sorella, facendo emergere la figura prepotente della nonna, stabile ed ultima protezione ad una sempre prossima deflagrazione dell’ultimo nocciolo familiare costituito dai due fratelli. I capitoli ci consegnano un gioco sottile di rimandi tra generazioni, in cui le figure femminili sembrano avere maggiore spessore umano, anche se, come il caso della madre, tradiscono un’insuperabile e apatica rinuncia al mondo. Le figure maschili, come si accennava, rappresentano invece un’istanza – quella paterna – che si è ripiegata su se stessa, accomiatandosi; il padre e lo zio sono uniti da una comune tensione verso un ideale di successo e arricchimento che se a un certo punto si lascia intravedere come raggiungibile, si mostra alla fine nella propria eterna e inderogabile impossibilità. Rimane al fondo una tradizione (lavorativa) di famiglia tanto affermata quanto tenue, incapace da sola di sostanziare alcuna continuità tra le generazioni, ma pure capace di mettere un “cosa” laddove risuona potente il vuoto lasciato da un “chi”.
È su questo che il romanzo di Franzoso, accogliendo una richiesta specifica dei nostri tempi, si interroga e ci invita a discutere.
È su questo che il romanzo di Franzoso, accogliendo una richiesta specifica dei nostri tempi, si interroga e ci invita a discutere.
Marco Franzoso, “Mi piace camminare sui tetti”, pp. 348, € 19,00, Rizzoli, 2016