Mentre Fabio era lì che gli trotterellava attorno sperando gli facesse prendere dal secchio il mais da lanciare alle oche, Olivo aveva strappato catturato una gallina nel cortile e tenendola per il gozzo, aveva aperto il coltellino a scatto appeso con uno spago al passante della cintura e glielo aveva conficcato nell’occhio. “Così la carne rimane tenera” aveva borbottato Olivo, la cicca stretta tra le labbra scure come gli avanzi di fegato che la nonna buttava ai maiali. Fabio era rimasto interdetto. Aveva vomitato quasi tutta la colazione e, vedendo il cane leccare fino all’ultimo residuo acido, aveva vomitato il resto. “Siamo uomini o caporali?” gli aveva detto il fattore con due occhi di ghiaccio e un sorrisetto cinico. “Ti aspetto domani alle quattro, al recinto dei ciuchi”.
Si sarà pentito, aveva pensato il piccolo Fabio, mi farà cavalcare il ciuco. Sicuro!
Il giorno dopo, alle quattro, Olivo lo aspettava davanti al cancello. Fabio era arrivato con una vecchia coperta di cotone che doveva servirgli come sella. Olivo aveva il sorrisetto del giorno prima e senza dire una parola, si era diretto verso le conigliere, controllando il cielo dove gruppi di nuvole arrivavano veloci e sparpagliate come uno stormo di anatre spaventate da un colpo di fucile. Aveva aperto la grata di rete, agguantato le orecchie del coniglio e l’aveva strappato dalla gabbia tra lo scalpiccio metallico che le unghiette facevano sul pianale di lamiera. L’aveva legato per le zampe inferiori e appeso a un chiodo a testa in giù come un sacco di patate. Con un ramo del pruno gli aveva sferrato un colpo così violento che gli occhi gli erano schizzati via dal cranio come biglie impazzite. Ancora prima che smettesse di sussultare gli aveva sfilato la pelliccia come da un piede un calzino strettissimo. Poi aveva fatto un taglio verticale sulla pancia, ci aveva affondato la mano, aveva strappato le budella e le aveva gettate lontano. Erano un groviglio di tubicini gommosi rosa e viola che fumavano sopra un mucchio di fieno bagnato dalle prime gocce di pioggia del temporale. Prima che il cane si avventasse sulle viscere – era un cane da banchetti schifosi, quello – Fabio era scappato via urlando come un ossesso, tra le risatine di Olivo. Pensava coglione coglione fregandosene del prezzo che avrebbe dovuto pagare a Gesù per le parolacce. Chissenefrega di Gesù, pensava, coglione coglione, se Gesù fosse stato davvero il santone che gli avevano fatto credere, come avrebbe potuto permettere una cosa del genere? Eppure gli avevano insegnato che Gesù amava tutti. Non era niente vero: Olivo non sarebbe esistito. Non avrebbe ammazzato così i conigli e le galline!
Fabio scappò dietro la casa, inciampando sul folto ricciolume delle zucche che infestavano l’orto e si rifugiò nel capanno di nylon. Accanto ai badili e alla falciatrice, c’era il moncone del pioppo che la nonna usava come appoggio per fare a pezzi la legna con la mannaia. Si specchiò nella lama sbiadita, aprì la bocca, i denti parevano una palizzata antica, e tutto il volto era sfumato e deforme come se arrivasse da un mondo spaventoso e sconosciuto. Forse era quello il mondo che governava Gesù.
Pensò alla nonna e a tutte le fandonie che gli aveva raccontato e sputò per terra.
Da uno squarcio del nylon, vide Olivo di schiena, sotto il cielo grigio, che col badile ficcava le pellicce insanguinate dei conigli dentro un sacco. I corpi scuoiati giacevano accatastati, i dentini aggrappati al cranio, sopra il fusto del mangime.
Le nuvole continuavano a scappare in tutte le direzioni, veloci e spaurite. I tuoni ne percuotevano le costole con secche legnate. Fabio strinse forte l’impugnatura della mannaia per staccarla dal solco su cui era piantata.
A malapena riusciva a tenerla in mano.