Raymond Carver, On writing , 1981 

Verso la metà degli anni 60, mi resi conto che avevo qualche difficoltà a concentrare la mia attenzione su opere narrative di una certa lunghezza. Per molto tempo ho avuto difficoltà tanto a leggerle quanto a scriverle. La mia soglia di attenzione mi aveva abbandonato, non avevo più la pazienza necessaria per tentare di scrivere romanzi. È una storia complicata e troppo noiosa per parlarne qui. Però, so che ha molto a che fare con la ragione per cui scrivo poesie e racconti brevi. Presto dentro, presto fuori. Non indugiare. Avanti. Può darsi che sia successo perché a quell’epoca, a quasi trentanni avevo perso qualsiasi ambizione di grandezza. Se questo è vero, penso sia stato un bene che mi sia andata così. L’ambizione e un po’ di fortuna sono cose che possono essere di molto aiuto per uno scrittore, se ce l’ha. Troppa ambizione e poca fortuna, se non proprio scalogna, possono rovinarlo. Ma soprattutto bisogna avere talento. 


Ci sono scrittori che di talento ne hanno tanto; non conosco scrittori che non ne abbiano. Ma un modo di vedere le cose originale e preciso e l’abilità di trovare il contesto giusto per esprimerlo, sono un’altra cosa. Il Mondo Secondo Garp è, ovviamente, il meraviglioso mondo di Jonhn Irving. Ce n’è un altro secondo Flannery O’Connor, e altri ancora per William Faulkner e Ernest Hemingway. Ci sono mondi secondo Cheever, Updike, Singer, Stanley Elkin, Ann Beattie, Cynthia Ozick, Donald Barthelme, Mary Robison, William Kittredge, Barry Hannah, Ursula K. Le Guin. Ogni grande scrittore o anche ogni scrittore molto bravo crea un mondo secondo sue proprie specificità. 
 


È qualcosa di simile allo stile, quello di cui parlo, ma non è solo un fatto di stile. E’ quel tipo inconfondibile e unico di firma che lo scrittore lascia su qualsiasi cosa egli scriva. È il suo mondo e di nessun altro. Questa è una delle cose che contraddistingue uno scrittore da un altro. Non il talento. Di quello ce n’è anche troppo in giro. Ma uno scrittore che abbia un modo personale di osservare le cose e che sappia dare un’espressione artistica a quel modo di guardare, quello scrittore sarà capace di durare a lungo. 
 


Isak Dinesen disse che lei, ogni giorno, scriveva qualcosa, senza speranza e senza disperazione. Un giorno o l’altro metterò questa frase in una cornice 3×5 e la appendo al muro accanto alla mia scrivania. Ne ho già diverse di queste cornici sul muro. 
“Una fondamentale accuratezza di espressione è il SOLO e unico principio morale della scrittura”. 
Ezra Pound.

Non basta in NESSUN senso, ma se uno scrittore ha la fortuna di possedere “una fondamentale accuratezza d’espressione” Be’, perlomeno è sulla strada giusta. 
 


Ho questa 3×5 alla parete con un frammento di una frase di Chekov: “… e all’improvviso gli fu tutto chiaro”. Trovo queste parole piene di meraviglia e di possibilità, amo la loro semplice chiarezza e l’accenno di rivelazione appena accennato. C’è pure il mistero. Che cosa non gli era chiaro prima? Come mai diventa chiaro solo ora? Che cosa è accaduto? E soprattutto: e adesso cosa accadrà? Un risveglio così improvviso porta con sé delle conseguenze come risultato di un così improvviso risvegliarsi. Io provo un acuto senso di sollievo e di attesa. 
 


Ho sentito lo scrittore Geoffrey Wolff dire ad un gruppo di studenti di un corso di scrittura “Niente trucchi facili”. Questa frase meriterebbe una 3×5. Io farei solo una piccola correzione: “Niente trucchi.” Punto. Odio i trucchetti. Al primo segno di un trucco o trovata, in un testo di narrativa, che sia un trucchetto facile o uno elaborato, itintivamente corro ai ripari. I trucchetti tendono ad essere noiosi e io mi annoio facilmente e questo forse dipende dal fatto che ho una soglia di attenzione breve. La scrittura estremamente estremamente elaborata e chic o quella chiaramente stupida mi fanno addormentare. Gli scrittori non hanno bisogno di ricorrere a trucchi e trovate e nemmeno di essere i primi della classe. A costo di sembrare stupido, lo scrittore deve avere la capacità di rimanere a bocca aperta davanti a questa o quella cosa – un tramonto o una vecchia scarpa – in  uno stato di assoluto e puro stupore. 
 


Qualche mese fa, sul New York Times Book Review, John Barth scrisse che fino a dieci anni fa, la maggior parte degli studenti del suo seminario di scrittura era interessata soprattutto alle “innovazioni formali” e che questo ora non era più vero. Lui ha paura che, negli anni ’80, gli scrittori comincino a scrivere in maniera meno ambiziosa. Teme che la sperimentazione stia perdendo colpi, insieme allo spirito liberale.  Personalmente divento un po’ nervoso se mi trovo a distanza sufficiente per ascoltare queste serie conversazioni sull’”innovazione formale” nella narrativa. Troppo spesso la parola “sperimentazione” è un alibi per scrivere in modo sciatto, sciocco o imitativo. O ancora peggio, una scusa per alienare e brutalizzare il lettore. Troppo spesso questo genere di scrittura non offre nessuna notizia del mondo, o ci descrive un paesaggio desertico e nient’altro – qualche duna e delle lucertole qua e la, ma nessuna persona; un posto non abitato da nessun essere riconoscibile come umano, un luogo che può essere d’interesse solo a pochi scienziati specialisti . 
 


Vale la pena far notare che la vera sperimentazione in narrativa dovrebbe essere originale, la si ottiene con duro lavoro, e provoca gioia. Perciò gli scrittori non dovrebbero inseguire il modo di guardare le cose di qualcun altro – per esempio di Barthelme – . Non funzionerebbe. Di Barthelme ce n’è uno solo, e se un altro scrittore tentasse di appropriarsi della particolare sensibilità di Barthelme o della sua tecnica di mise en scene e definirla innovazione, quello scrittore s’impegolerebbe nel caos, nel disastro e, peggio ancora, nell’auto-inganno. I veri sperimentatori devono RENDERE TUTTO NUOVO, come Pound suggeriva, e nel processo scoprire le cose da soli. Ma gli scrittori non devono scordarsi che devono restare in contatto con noi, devono portarci notizie dal loro mondo al nostro. 
 


Esiste la possibilità in una poesia come in un racconto breve, di scrivere di cose e oggetti comuni usando un linguaggio comune ma preciso, e donare a quelle cose – una sedia, la tendina di una finestra, una forchetta, un sasso, l’orecchino di una donna – un’immensa forza, perfino sbalorditiva. Si può scrivere una riga di dialogo apparentemente innocuo e fare in modo che provochi nel lettore un brivido sulla schiena – la sorgente del piacere artistico, come Nabokov la definirebbe –. Questo è il genere di scrittura che m’interessa particolarmente.  Odio quello scrivere sciatto o confuso spacciato per sperimentale o semplicemente quel realismo reso in maniera goffa. Nello splendido racconto di Isaac Babel, “Guy de Maupassant”, il narratore parlando della tecnica narrativa, a un certo punto dice: “nessun ferro può trafiggere il cuore quanto un punto messo nel punto giusto.” Anche questo andrebbe incorniciato. 
 


Evan Connell disse una volta che capiva quando un racconto era finito nel momento in cui rileggendolo, si sorprendeva a togliere virgole e poi lo rileggeva da capo e rimetteva le virgole al loro posto.  Mi piace questo modo di lavorare su qualcosa. Rispetto molto questo genere di attenzione a quello che si sta creando. Del resto, le parole sono tutto ciò che abbiamo, perciò è meglio che siano quelle giuste, con la punteggiatura al punto giusto in modo che possano dire quello che devono dire nel modo migliore. Se le parole sono appesantite dall’emozione incontrollata dello scrittore, o se sono imprecise e inaccurate per qualche altra ragione – se le parole sono insomma in qualche modo sfocate – gli occhi del lettore gli scivoleranno sopra e non si sarà ottenuto un bel niente. Semplicemente, il senso artistico del lettore non sarà stimolato. Henry James definiva questo genere infelice di scrittura affetto da “debolezza di specificazione”. 
 


Ho amici che a volte mi hanno confessato di aver dovuto scrivere un libro di fretta perché avevano bisogno di soldi, il loro editore o la loro moglie gli mettevano fretta o lo stavano per piantare – insomma qualcosa, qualche scusa per giustificare una scrittura non troppo buona. “Sarebbe venuto meglio se ci avessi speso più tempo.” Io sono rimasto interdetto quando ho sentito dire queste parole ad un amico romanziere. Lo sono ancora, se ci penso, ma non mi capita spesso. Non è affare mio in fondo. Ma se non è possibile rendere la scrittura tanto buona quanto lo è dentro di noi, allora perché farlo? Alla fine la soddisfazione di aver fatto del nostro meglio, e la prova di tanto duro lavoro, sono le uniche cose che ci possiamo portare appresso nella tomba. Avrei voluto dire al mio amico, per carità di Dio vai a far qualcos’altro. C’è di sicuro un modo più semplice e forse più onesto per guadagnarsi da vivere. Oppure fallo al meglio delle tue possibilità, del tuo talento, ma dopo non ti giustificare, non cercare scuse. Non lamentarti e non dare spiegazioni. 
 


In un saggio intitolato semplicemente “Scrivere racconti brevi”, Flannery O’Connor parla della scrittura come di una scoperta. O’Connor dice che molto spesso non sapeva dove sarebbe arrivato quando si sedeva a lavorare su un racconto. Dice che dubitava che molti scrittori sapessero dove stavano andando quando iniziavano qualcosa. Prende “Good country people” come esempio per spiegare come mettesse insieme una storia di cui non avrebbe mai indovinato il finale se non quando vi fosse quasi giunta   

Quando ho cominciato a scrivere quel racconto non sapevo che a un certo punto ci sarebbe stata una laureata con una gamba di legno. Mi sono semplicemente ritrovata una mattina a descrivere due donne che conoscevo un po’ e, prima che me ne rendessi conto, ecco che conoscevo un po’ e, prima che me ne rendessi conto, ecco che avevo attribuito a una di loro una figlia con una gamba di legno. Poi ci ho messo pure un ambulante di Bibbie, ma non avevo la più pallida idea di cosa avrei fatto di lui. Non sapevo che avrebbe rubato quella gamba di legno se non dieci o dodici righe prima che lo facesse, ma quando ho scoperto che sarebbe successo proprio questo, ho capito che era inevitabile.

Ricordo che quando lessi questo saggio, anni or sono, fui colpito dal fatto che la O’Connor, o qualsiasi altro scrittore, scrivesse dei racconti in quel modo. Pensavo che quello fosse il mio segreto scomodo che mi faceva sentire un po’ a disagio. Di certo pensavo che questo modo di lavorare sui racconti rivelasse qualche mio difetto. Ricordo che fui tremendamente rincuorato nel leggere quello che lei aveva da dire al riguardo. 
 


Una volta mi misi a scrivere una storia che poi si rivelò un buon racconto, anche se era stata giusto la prima frase ad offrirmela quando lo cominciai. Da diversi giorni avevo questa frase nella mia testa “Stava passando l’aspirapolvere quando il telefono squillò.” Sapevo che dietro c’era una storia che voleva essere raccontata. Lo sentivo nelle ossa, che c’era una storia a cui quell’inizio apparteneva, e dovevo solo prendere il tempo di scriverla. Il tempo lo avrei trovato, un giorno intero – dodici, quindici ore addirittura – bastava che volessi metterlo a frutto. Lo trovai, una mattina mi sono seduto e ho scritto la prima frase e subito altre frasi hanno cominciato ad attaccarsi a quella. . Creai quella storia come avrei composto una poesia; una riga dietro l’altra e poi un’altra e poi un’altra ancora. Dopo un po’ ho cominciato a intravedere la storia e sapevo che quella era la mia storia, proprio quella che avrei voluto scrivere. 
 


Mi piace quando c’è un senso di minaccia o di rischio nei racconti. Penso che un po’ di minaccia ci stia bene in una storia. Di sicuro è buono per la circolazione. Ci deve essere una tensione, il senso di qualcosa di imminente, che alcune cose siano messe in moto e non si possono fermare, altrimenti, il più delle volte, la storia semplicemente non ci sarà. Quello che crea la tensione in un racconto è, in parte, il modo in cui le parole vengono concretamente collegate per creare l’azione visibile della storia. Ma creano tensione anche le cose che vengono lasciate fuori, che sono implicite, il paesaggio è appena sotto la tranquilla (ma a volte rotta e agitata) superficie del racconto. 
 


V.S. Pritchett definisce il racconto come “qualcosa intravisto con la coda dell’occhio, di sfuggita”. Attenti a quell’”intravisto”. Prima c’è qualcosa di “intravisto”. Poi quel qualcosa viene dotato di vita, trasformato in qualcos’altro che illumina l’attimo fuggente e potrebbe avere, se abbiamo fortuna – sempre questa parola – conseguenze ancora più significative e durature. Il compito dello scrittore di racconti è di investire in questa apparizione con tutto ciò che è in suo potere. Egli deve metterci tutta l’intelligenza e tutta l’abilità letteraria che possiede (il suo talento, insomma), tutto il suo senso delle proporzioni e della forma: dell’essenza del reale delle cose esterne e del modo in cui lui – e nessun altro – le vede. E tutto questo si ottiene attraverso l’uso del linguaggio chiaro e preciso, un linguaggio usato in modo da infondere vita e dettagli che illumino il racconto al lettore. Perché i dettagli siano concreti e carichi di significato, è essenziale che il linguaggio sia dato in maniera quanto mai accurata e precisa. Le parole possono essere precise anche al punto da apparire piatte, l’importante è che siano cariche di significato; se usate bene, possono toccare tutte le corde. 

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