Velimir Chlebnikov, genio idiota

“Una specie di Einstein idiota” O. MANDEL’ŠTAM

Nato a Tundotovo, morì a Santalovo. La rima è esatta ma non è la sua. Lui, vagabondo, ebbe per casa la nuda terra e per terra il cielo. Nel cielo vide  il Cancro e l’Ariete, e il mondo, “una conchiglia, appena, / nella quale è perla / quello di cui sono malato”. Nel cielo vide le stelle e chiamò rete, vide noi, gli uomini, e ci chiamò pesci, vide gli déi, e li chiamò fantasmi e tenebra. Dicono che la sua figura ricordava quella di un uccello, e infatti. Volò da qui a là, col suo bastone esatto (aveva studiato la matematica e la geometria), con la bisaccia leggera (una crosta di pane, un ditale di latte, e le nuvole), con la federa riempita di manoscritti (su cui dormiva per non smarrirli e che regolarmente dimenticava in qualcuno dei suoi letti fortunosi) e il vestito fatto di stracci. Scrisse versi immortali, ma non si curava di pubblicarli. Li amò meno di noi e dei refusi o delle madornali impaginazioni che brillavano nei suoi libri pubblicati da altri. Fu il poeta più grande di quei tempi, ma sembra un guitto da fiera paesana, che canta i suoi giochi di parole appollaiato sul tetto dei treni. Un Woody Guthrie molto più vecchio, anzi più antico. Paragonò la vita a una travolgente onda di risacca, ma era troppo idiota per correre a cercarsi un riparo.

Questo è il ritratto metafisico che Baroncelli, in Falene (Sellerio), dedica a Chlebnikov. Mi è venuto spontaneo pensare ad un altro personaggio immortale.

Marzo del 1947, Milano, periferie fumose e scorci urbani alla Sironi.  Un uomo ancora giovane ma disfatto si aggira nella città appena uscita dalla guerra. È incurvato, le mani in tasca rattrappite, un cappellaccio calato malamente sulla fronte. Ma un’eleganza antica lo pervade, basta un gesto della mano, la preziosità della cravatta a rivelarne l’intima, scostante, antistorica e aristocratica eleganza. 

Si respira  l’ansia di ricostruzione della città, l’uomo, uno scultore trevigiano, pare un gattaccio, entra nelle latterie e nelle osterie dei navigli per prendersi una sbronza. Vive all’ombra del passato, nella solitudine circondato, come Dioniso, da  un coro dei satiri della tragedia greca o dal girotondo di collegiali, dalle sue statue. Statue. Le ha imballate, stivate, stipate in casse di legno, le sta mandando con il treno a Vado Ligure dove vive adesso con la moglie e i figli.  Giovanni Comisso in una straziante commossa lettera dedicata all’amico, definisce il grande Arturo Martini ‘lo scultore delle molte statue’. Le opere vengono spedite. Ma mentre le sue creature di marmo e terracotta stanno per arrivare a destinazione, lo scultore muore a Milano, senza  rivedere i suoi cari. 

Mito e quotidiano si fondono continuamente: il prigioniero che modella con la mollica di pane delle scarpette da donna, e ferendosi le vene con un temperino le colora col sangue, diventano una metafora fortissima della sua scultura, della povertà e della magia.
Treviso gli rimarrà nel cuore, ma non vorrà più tornarvi. 
Non sempre Treviso ha trattato bene i suoi geni. Ne ricordo un altro, legato al primo da un profondo affetto. Parlo di Gino Rossi, morto in manicomio, dove era finito pur conservando spazi di intelligente lucidità fino in punto di morte.

 “… vedremo poi chi ci ha voluto veramente bene e chi ci ha dimenticato”, commenta Gino Rossi alla notizia della morte dell’amico Arturo Martini nel 1947.

Se siamo qui a scriverne, è perché a dimenticarvi, proprio non ci pensiamo.

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