È un po’ tardi oggi, mi toccherà far aspettare Toni, speriamo che non vada via. Va ben che ormai lo sa che verso la mezza arrivo sempre a fare un saluto, e anche un bianchetto a dire la sincera verità, che la Ida ci mette sempre un mezzo dito di vino fresco in più di quello che bisogna, dice che pulisce l’esofago e prepara lo stomaco, così liscio e fresco. Solo che per non farci tornare a casa storti dalle mogli ci prepara un piattino con qualche crosta di pan biscotto e una fettina di salame saltata in padella che ti sfrigola sulla lingua, estate e inverno non fa differenza. Finché non finisce i salami, la Ida non si dà pace, che poi se no vanno in rancido. Cosa vuoi che sappia, il dottore, per un bianchetto e un po’ di pane e companatico, lascia che dica, lui, che io fin qua ci sono arrivato.
Aspetta che questo trabiccolo devo sistemarlo bene, che non caschi giù tutto, perché, dopo, la Michela ci deve lavorare con questo, e si è tanto raccomandata, “mi raccomando papà, con quelle mani, non è mica una vanga che anche se casca la tiri su intera come prima, sta tento a non fare disastri”. Mi sembrava tanto complicato che mai, le prime volte, e infatti ha dovuto venire su anche lei i primi tre quattro giorni per aiutarmi, perché ste robe moderne se me le spieghi una volta non basta mica, cosa vuoi che mi sforzi alla mia età, ma alla fine, insomma, mi arrangio in qualche modo. Basta metterla a questa altezza qua, così, verso il parapetto, e schiacciare questo pulsante, ecco, questo col cerchietto rosso, è difficile sbagliarsi, e lei parte a registrare. La batteria non so mai dove bisogna guardare, ma ha detto che ci pensa lei. E anche la memoria, ci pensa lei. La memoria, ha detto, in questo trabiccolo c’è la memoria. “Speriamo che sia meglio di quella di tua mamma”, le ho detto, ma mi ha guardato storto come dire “pensa alla tua, papà, che la mamma non la batti mica sai, sa i compleanni di tutti fino al quarto grado, e tutti i nomi dei figli dei cugini dei nipoti…” Ah ecco, guarda, un camion. Aspetta che segno.
Uno ogni morte di papa, a dire la sincera verità. Ma cosa vuoi, bisognava farla a tutti i costi l’autostrada, se no ci tagliavano fuori dal mondo. E tutti i tir che dovevano passare! Centinaia al giorno, dicevano, e le macchine? Migliaia! Una dietro l’altra, come una fila di formiche, tutte attaccate…
Insomma alla fine ci siamo trovati tra i piedi sto cavalcavia a ponte sopra l’autostrada, che prima qua era tutto dritto rasoterra come un tiro di schioppo, fino in paese. Case poche, solo campi da una parte e campi dall’altra: da sta parte qua, qua sotto, una volta, tutta terra mia, da sotto il monte dove c’è la casa fino quasi alla prima villetta là in fondo, quella del dottore di prima. Che quando ci passavo in macchina e ero con qualcuno mi dovevo girare dall’altra perché si lucidavano gli occhi dalla soddisfazione, con quelle spighe di mais che venivano su dritte e forti come pali della luce, un metro, due metri, a volte fino a tre. Che poi facevano delle pannocchie che erano uno spettacolo, e la Michela e Federico venivano ogni tanto nei campi a controllare se i ciuffi, o i capelli come li chiamavamo, erano secchi, segno che le pannocchie erano pronte. E mi toccava sempre tirarne da parte qualcuna per loro prima che finissero tutte nella sgranatrice a manovella, che si divertiva come matti a farsi le vesciche nelle mani per strappare via le foglie accartocciate e sgranarle ruotando i polsi tutto intorno, così, coi palmi che diventava sempre più rossi e bollenti. Per fare cosa, per lanciare i chicchi uno alla volta alle galline e farsi seguire come in processione, avanti e indietro per il cortile, come il prete con l’acqua santa. Cosa vuoi, che una volta la Adele si è sognata di portare a casa un barattolo di mais del supermercato, “da mettere nell’insalata”, ha detto, e io allora ho detto roba da matti e te lo mangi tu il mais, che io lo do alle galline, non è mica un mangiare da cristiani. Ma mica solo il mais, c’era. Anche il frumento, che era uno spettacolo passarci a fianco con le spighe arancioni che ti arrivavano alla pancia, e se passavi in macchina vedevi come un mare al tramonto, e se c’era un filo d’aria le spighe erano come le onde tutte ubbidienti, tutte piegate dalla stessa parte. E le vigne? Filari su filari, ma no di prosecco, che è tutta una moda di adesso. Uva da vino robusto e asprigno che ti fa schioccare la lingua e strizzare un po’ gli occhi a ogni sorsata che mandi giù, vino da pasto, no da dessér. Càberne franc e pinò grigio, e anche qualche campo di garganega. Che anche lì, la Adele, con tutte ste vigne, mi porta a casa la uva dal supermercato, “uva da tavola”, santa donna, “dai, per cambiare un po’, per ‘na volta”, con sti acini grossi come mandarini che non sanno da niente. Ma vuoi mettere tirare giù dai filari un grappolo che non ti bastano due mani per tenerlo, stracolmo di acinetti neri lucidi, tutti incollati uno con l’altro che non ci passa un ago in mezzo, e attaccarci i denti e mangiarlo a bocconi come una mela, che gusto, altro che uva da tavola, giusto un attimo per togliere qualche ragnetto che si è infilato dentro per farsi una casa nel dolce, perché il trattore va avanti che entro sera bisogna vendemmiare altri tre filari. Certo che in quelli del supermercato di sicuro non trovi ospiti dentro, mi ricordo quella volta, Federico, che era piccolo e voleva fare come noi, spalanca la bocchetta, che gli mancava anche un dente davanti, mi ricordo come se fosse adesso, e ahhhhhhhhm! Un bel morso al grappolo che bello nascosto in mezzo c’era anche un bel cimice saporito, e giù un pianto per due ore che dio ci salvi, per un cimice. Credo che i miei figli siano specializzati nel mangiare robe strane, anche E la Michela? Una volta è tornata a casa con la lingua tutta gonfia, e non voleva dirci come se l’era fatta, solo che a furia di insistere che se no la portavamo all’ospedale alla fine ha confessato che aveva assaggiato un fiore, però non siamo mai riusciti a capire che tipo di fiore era per far venire fuori una lingua grossa così, come quella di un vitello.
Che tempi. Comunque per noi questa era da sempre la strada longa. Longa, e basta, non so neanche se ha un nome suo proprio. Tutta dritta fino in centro paese.