Blocco con la copertina a cuore per gli ultimi appunti, cartellina fucsia con la raccolta di scritti degli ultimi mesi, astuccio color acqua marina. Oltre al portafogli, naturalmente. Cellulare, burro cacao, fazzoletti di carta – che non si sa mai, qualche altro ricordo potrebbe affiorare liberando un’emozione di troppo.
C’è tutto. Sono pronta, anche per l’ultima lezione, si disse Renata.
Da Febbraio, un week-end al mese, seduta in cerchio, nell’accogliente abbraccio di quella che stava diventando la sua terza famiglia, si era regalata l’opportunità di scrivere e ascoltare il mondo di parole che uscivano, da se stessa e dai suoi compagni di viaggio.
E come i tramonti di settembre, dipinti con pennellate di attimi che non hanno nessuna voglia di andarsene in fretta, in un baleno era giunto anche quello che – per quell’anno – sarebbe stato l’ultimo intenso week-end di Scavo.
Fino alle nove e trenta di quel sabato mattina, come altre volte, aveva aiutato il suo piccolo tesoro con lo chignon per la prova di ritmica, sparecchiato la colazione e caricato la lavastoviglie, pulito il piano di Corian della cucina, come se fosse la sua stessa faccia. Poi aveva preparato sulla consolle dell’ingresso i documenti per il commercialista, le lettere per l’avvocato, le buste paga dei dipendenti insieme alle fatture, che avrebbe pagato lunedì.
Ma finalmente, dalle dieci sarebbe tornata ad essere lei e basta. Non più doppia e trina, non più moglie e madre. E figlia, sorella, amica, imprenditrice, collega.
Quei week-end di Scavo, erano aria pura: in due giorni, per tredici ore, settecentottanta minuti per la precisione, Renata sarebbe stata soltanto una donna con l’amore per la scrittura, in un viaggio interiore, con altre donne e uomini con la stessa passione.
Pronta per uscire, sorrise a se stessa dentro lo specchio dell’ingresso, ignorò gli occhi stanchi, la ricrescita biondo cenere che covava sotto i colpi di sole, le prime rughe e i suoi quasi quarantacinque anni. E si mandò un bacio.
Un breve tragitto e alle dieci, come tutti i precedenti week-end, sarebbe stata con i suoi compagni di corso, davanti a se stessi, ai propri ricordi, alle parole imprigionate, alle emozioni da liberare. Nella luce seppiata della stanza sarebbe entrata in una dimensione senza mariti, figli, affari e casa da gestire, tensioni e stanchezza da stemperare e combattere con muffin e cioccolatini al caffè.
Avrebbe imparato che per scrivere un racconto servono personaggi, vicende e sfondi abitabili, attingendo soprattutto al proprio vissuto, ai propri sentimenti. Usando pochi avverbi e aggettivi, minimi punti esclamativi e nessun puntino di sospensione. Raccontando per immagini ed eliminando, innanzitutto, il proprio senso critico.
Avrebbe imparato che è possibile spogliarsi di un’armatura, che una regina della nevi può sciogliersi a poco a poco, che il passato può avere un sapore marrone e che è possibile lasciarlo dietro di sé e scriverlo, nero su bianco, su fogli a righe. Da dove rileggerlo, ogni tanto, per illuminare, poco o tanto, le nostre giornate. Perchè portare tutto con sé, lungo la nostra strada, non serve.
Avrebbe imparato che siamo proprio come i libri, e che la maggior parte della gente vede solo la nostra copertina. Nel migliore dei casi legge l’introduzione. Spesso c’è chi si basa solo sulle recensioni e sulle critiche di altri. E a pochi è concesso di conoscere, veramente, noi stessi e le nostre storie.
Ma dentro ognuno di noi c’è un libro, un grande libro. E senza avere la presunzione di pensare che la propria vita possa essere stata più interessante di altre, sicuramente sarà comunque valsa la pen(n)a scriverlo.