Riflessioni sulla resa delle emozioni in un testo narrativo
Luna è triste perché Luca l’ha lasciata. Dopo due giorni succede che la vedo passeggiare ridendo con Giordano.
Gemma è triste perché Nino l’ha lasciata. Dopo due giorni s’impicca.
Quanto era triste Luna? Quanto era triste Gemma?
Dovremmo inventare un’unità di misura per quantificare la parola ‘triste’.
Una scala numerica da 1 a 100? Luna era triste 3 e Gemma 100.
Ma le emozioni non sono matematica e questa contabilità è improponibile.
Per dire, che è complicato stabilire la misura delle emozioni. Qualcuno ci prova con paroline insetto come ‘molto’ ‘assai’ e via discorrendo, oppure con dei superlativi assoluti che hanno lo stesso problema del nome da cui derivano e da cui si staccano per farlo lievitare. Cosa vuol dire molto triste? E tristissima?
E dunque. Come facciamo a capire la parola ‘triste’?
Come diceva mia madre: nella vita contano i fatti.
Questo è uno dei parametri che fanno capire la ‘quantità’.
La tristezza – come ogni altra emozione – è un movimento di neurotrasmettitori, ghiandole, flussi sanguigni, circuiti cerebrali. Tutto questo turbinio provoca delle azioni. Non mi addentro in questioni psicologiche, fisiologiche e patognomiche. Mi interessano solo la scrittura e come, ben usando gli arnesi del mestiere, vengono rese le emozioni, nuclei fondamentali di tutte le narrazioni.
E allora, se le azioni danno la misura dell’intensità di uno stato d’animo, osserviamole con occhi attenti. Troppo facile veicolarle con aggettivi (triste), appesantire con avverbi (molto), ingozzarle con superlativi, specie se assoluti (tristissima). Troppo comodo e per di più poco efficace. Se vuoi raccontare una storia non puoi descrivere personaggi, ambienti e situazioni sciorinando una sequela di aggettivi che ingolfano la forma e appiattiscono la sostanza. Gli aggettivi sono bidimensionali e tu la storia la devi far saltare fuori dalle pagine, farne bassorilievi, oggetti tridimensionali, materializzare le tre dimensioni per dare la sensazione che quegli spazi si possano attraversare fisicamente, sentendo il profumo delle gardenie o il mucido delle trote di lago, per tastare con le mani il velluto di una gonna svasata, la setosità di una pelle, per annusare il profumo del cocomero e gustarsi il sapore zuccherino, per sentire il respiro profondo di chi, dopo aver fatto l’amore, ti dorme accanto come un angelo.
Mia madre mi ha insegnato che nella vita contano i fatti. Anche qui contano: un’idea dell’intensità delle emozioni ce la dà la descrizione delle azioni che ruotano attorno a quell’emozione,
Senti un po’ cosa diceva Ludwig Wittgenstein nel suo Tractatus logico-philosophicus (e ti giuro, mai avrei pensato di riportare l’esempio di Wittgenstein!)
- Il mondo consiste in una totalità di fatti atomici, e qualunque proposizione può essere analizzata come un’ immagine di tali fatti.
- Perché una immagine possa rappresentare un determinato fatto deve in una certa maniera possedere la stessa struttura logica del fatto. L’immagine è un modello della realtà. (…) 1
- Non possiamo dire con il linguaggio ciò che appartiene alla struttura, al massimo può essere mostrato, perché ogni linguaggio che usiamo appartiene a questa relazione, e non possiamo saltare fuori dal linguaggio con il linguaggio.
Show don’t tell!
Solo osservando ciò che fanno Luna e Gemma capisci davvero il valore della parola ‘triste’. Attraverso le azioni ti puoi immedesimare in quello che succede perché il cervello si attiva di fronte alle cose che si muovono (meno a quelle statiche). Perché i nostri sensi impazzano se vediamo davanti a noi staccarsi una valanga dal monte bianco più che se la stessa cosa ci viene riportata, filtrata dalle emozioni altrui.
Non ho potuto evitare, per tentare di farmi capire, qualche metafora. Non è stato solo un caso, ma anche una necessità e soprattutto: intenzione. Perché?
La metafora è un altro strumento utile allo scopo.
Ma questa è un’altra storia. La prossima.
1) Aggiungo: come la letteratura.