Almeno per me.
Lei se lo aspettava ma non me lo aveva mai chiesto né lo avevamo concordato.
Avevo già superato l’esame di guida, lei ancora no.
Durante la teoria i nostri sguardi si erano incrociati per caso dopo una battuta dell’insegnante. Non si erano solo incrociati, si erano fermati per un attimo come per decidere chi sarebbe passato per primo all’incrocio; nessuno dei due aveva però intenzione di ripartire. E quell’istante era durato quel tanto che basta per aggiungere un mezzo sorriso alla battuta seguente. E a quella successiva un sorriso intero e a far sparire il colore tremendo della timidezza che si era stampato sulle mie guance al mezzo sorriso precedente.
Per caso, sempre per caso, le distanze delle nostre seggiole si erano via via accorciate durante le lezioni successive e il sorriso intero fioriva già al vederci prima di entrare.
Era un apparire l’uno all’altro, un “Ciao!” che significava “Non so cosa dire, non so cosa fare, ma saprei cosa dire e saprei cosa fare se solo ne avessi il coraggio, se solo durante la lezione ti cadesse la matita e io te la porgessi e contemporaneamente la trattenessi mezzo istante, un battere di ciglia e ti guardassi negli occhi e i tuoi occhi rispondessero avvicina le tue mani alle mie, non servono parole”. E invece le matite cadevano apposta e le reciproche domande di chiarimenti sottovoce erano anch’esse fatte apposta ma all’incrocio c’era sempre il timore di innestare la marcia sbagliata.
Avevamo superato l’esame di teoria insieme, poi, per caso, sempre per caso, le nostre lezioni di pratica coincidevano come orario e alla fine l’accompagnavo alla sua fermata dell’autobus che era la stessa mia e intanto le parole giravano in tondo in una spirale che partiva da fuori, dalla scuola finita, dalle vacanze in arrivo, da cosa farai dopo, da quanto rompono i miei; non arrivavano mai al centro, rallentavano fino a perdersi in una tangente, un epigramma a forma di saluto che in realtà non era un “Ci vediamo, alla prossima!” ma un “Non vedo l’ora di rivederti per dirti un sacco di cose che non ti dirò mai o forse sì ma non sono sicuro, certo che sono sicuro e lo sei anche tu!”.
L’esame di pratica per me era venuto prima, si stava esaurendo il gruzzolo risparmiato lavorando l’estate precedente per superare tutto tramite l’autoscuola; obbligatorio, nonostante il costo, per paura di rovinare l’unica auto di famiglia che serviva a mio padre per lavoro e che non poteva essere usata per fare pratica. Avevo dovuto a malincuore affrettare i miei progressi ben sapendo che avrei rischiato di non vedere più chi stava saturando le mie connessioni neuroniche.
Subito dopo l’esame mi recai all’autoscuola per le ultime pratiche e riuscii, con il consueto dispendio di colore sulle guance, a chiedere gli orari delle sue prossime lezioni spiegando che dovevo restituirle il libro di teoria che in realtà nessuno dei due aveva mai avuto. La segretaria sciorinò con fare materno unito ad un sorriso di comprensione (o compassione, non lo notai) i dati relativi alla settimana in corso ma a me bastava sapere della prima lezione e volai fuori rimettendo subito dopo la testa dentro all’ufficio per un “Grazie!” che non aveva bisogno di spiegazioni ma aveva riempito la stanza di una strana fragranza: la felicità.
Per caso, sempre per caso, la aspettavo alla fine delle lezioni e, dopo l’iniziale sorpresa “Ma non hai già finito tu?” che sottotitolato intendeva “Ti ho cercato, speravo tanto che venissi!”, andavamo insieme sempre alla stessa fermata dell’autobus, lo stesso numero di passi via via rallentati, gli stessi silenzi per dire e non dire.
L’ultimo appuntamento.
Aveva superato anche lei l’esame di guida. Subito dopo sarebbe partita per le vacanze dai suoi parenti che abitavano lontano e anche se fossero stati vicini sarebbero stati sempre troppo lontani per quello che mi si mescolava dentro. La mia testa era una betoniera, il mio stomaco si era chiuso, entrambi recalcitranti all’esprimere un pensiero compiuto, incapaci di attraversare quell’incrocio, di dare parola, forma verbale ai pensieri stessi. Ai sentimenti.
Eravamo alla fermata, il suo autobus sarebbe arrivato appena prima del mio. Come sempre.
E stava arrivando questo maledetto, mai un minuto di ritardo, mai che all’autista gli fosse balenata per la testa l’idea di cambiare strada per caso, almeno una volta per caso, per poi ritornare su quella originale, mai che qualcuno avesse suonato a metà percorso per farsi scendere perché aveva sbagliato, mai una bicicletta che l’avesse fatto inchiodare o una manifestazione che l’avesse bloccato. Mai. Soprattutto ora.
In apnea perché i polmoni da un pezzo non ricevevano ossigeno ed il sangue era occupato a invadere il colorito pallido del viso, un réfolo sottile, fragile e minuto arrivò a destinazione. “Devo dirti una cosa importante.”
E con i suoi occhi intenti ad accompagnare un sorriso che significava “Finalmente, passa hai la precedenza.”, lei rispose o forse sussurrò con dolcezza “Dimmi.”
Dimmi. Dimmi cosa, lo sai benissimo, che sto morendo, che non ho fatto altro che pensarti, che ho inventato mille scuse con gli amici, con i miei, con tutti pur di venire a prenderti alla fine delle lezioni, che ho speso le ultime lire per acquistare i biglietti dell’autobus, che mi lavo ogni giorno, che fra un po’ tu te ne vai e almeno saprai cosa sei per me, che quando torni ci rivedremo, che…
…che il tuo autobus sta facendo l’ultima curva prima di fermarsi, aprire le porte, ingoiarti e portarti via.
Via. Tre lettere. Tre.
“Non mi ricordo più.” risposi. Quattro parole. Quattro.
Nei suoi occhi lessi la delusione mista a compassione, il sorriso svaniva nell’affrettarsi verso le porte dell’autobus e si spegneva in un “Ciao” che significava “Addio, passo prima io all’incrocio, vado in un’altra direzione e tu non ci sei né ci sarai ad accompagnarmi “.
“Non mi ricordo più”. Lo zen e l’arte del farsi del male.
Frase più insulsa ed inutile non avrebbe potuto risuonare in quella roboante betoniera che era la mia testa.
Salii sull’autobus arancione, sedetti guardando fuori, gli occhi coperti da una velatura che non erano gli occhiali appannati, ma la rabbia, la vergogna e la disperazione scioltesi in lacrime.
Dopo un po’ salì il controllore, mi chiese il biglietto e glielo porsi.
Guardandomi mi chiese “Tutto bene?”; trassi un fazzoletto di tasca per asciugare il campo visivo e raccogliere i pezzi di un puzzle non ancora composto e di cui avevo perso l’immagine iniziale ma ne avevo ben presente il risultato finale e risposi: “Si tutto a posto, è solo allergia, colpo di coda delle graminacee”.
Solo allora, aggiustati gli occhiali sul naso, mi accorsi di aver preso il primo mezzo che si era fermato e che quel giorno, proprio quel giorno, aveva anticipato l’arrivo del mio portandomi poi esattamente nella direzione opposta a quella in cui avrei dovuto andare; alla prima fermata utile scesi e spensi definitivamente la betoniera ormai vuota essendo saltato anche l’appuntamento con il mio autobus.