Pausa. Riprendo fiato. Bevo un sorso di vino e la guardo. Lei mi guarda. Come si guarda chi si è appena fatto scappare una puzzetta.
Fermo fotogramma.
Voce off. Sempre la mia.
“È che non riesco a ricordare come ci siamo infilati in questo discorso. Il fatto è che non devo guidare per rincasare, e il cabernet va giù che è un piacere.”
Flashback.
Le sorelle Kuliscioff scendono dall’auto nel parcheggio del locale. Ovviamente Kuliscioff è un nome in codice. Lo uso tra me e me, per altro. Comunque, una è bionda, decisamente più carina: l’aspirante avvocato; l’altra castana, sicuramente più giovane e con un davanzale più generoso: l’archeologa. E c’è la prima sorpresa della serata.
In effetti, pensando a chi ha organizzato la cena, avrei dovuto immaginarlo. Anche se questa persona si dichiara di destra, e me le aveva dipinte come due spartachiste irriducibili.
A dirla tutta me le aspettavo più “sinistrate”. No global? No logo? No Tav? Disobbedienti? Per un attimo le avevo immaginate postperaiste?
Insomma, per dirla tutta, mi aspettavo gonnelloni di stoffa ruvida che arrivano alle caviglie, golfini sdruciti, tatuaggi, brillantini al naso e bigiotteria minimal-etnica.
Quelle bellezze non appariscenti, che odorano ancora di adolescenza e utopia.
Invece. Stivaletto taccato. Gonna appena sopra il ginocchio. Capello curato. Profumo evanescente di attitudine più che altro radical-chic.
Ora, saluti di prammatica, quindi dissolvenza incrociata e siamo di nuovo dentro.
Durante la cena siedo di fronte alla bionda.
Che poi sarebbe quella con la quale, secondo chi ha organizzato la serata, dovrei arrivare a quagliare, giusto un po’, per farmi dare il numero, e poi andare fuori a bere qualcosa una sera, o a vedere un film, o a un concerto, niente di impegnativo, per carità, così, giusto per togliermi di dosso questa patina untuosa di giovane uomo al tramonto e cercar di andare aventi con la vita, insomma. Non che sia così smanioso, di andare avanti, intendo, o sopra, o sotto, magari piuttosto indietro, ma tant’è, mi son detto mentre accettavo l’invito, che ho di meglio da fare stasera?
E allora partiamo dal loro recente viaggio in Australia. In realtà la conversazione regge. Se non fosse per il cellulare che le si materializza in mano ogni cinque/sette secondi, avrebbe una sua fluidità armonica.
Continuiamo coi viaggi. Qualcuno dice Cuba, qualcun altro Cina. Riesco far alzare più di un sopracciglio quando dichiaro baldanzoso che voglio andare in vacanza a Pyongyang. “Corea del Nord”, preciso, per spegnere certe espressioni imbambolate e sorprese. Poi spuntano fuori Mosca. Russia. E poi mi perdo. Ma vado a braccio. Improvviso, giocando di rimessa. C’è anche spazio per qualche battuta su Berlusconi, sul fanatismo dei suoi seguaci, sulla sua ormai prossima inumazione politica. “Secondo me quando muore lo mummificano” chiosa qualcuno, e mi dà il destro per raccontare la storia della mummia di Lenin,
E lei finalmente ride. Non so se per una battuta che ho fatto o cosa. Il viso le si illumina. Per una frazione di microsecondo la funzione d’onda di un universo alternativo mi pulsa davanti agli occhi.
Prima di attaccare il secondo mi chiede se sto su Facebook. Poi ci scambiamo addirittura assaggi di dessert. La strada sembra in discesa, e se fumassi, avrei la scusa per accompagnarla fuori un attimo, mentre aspettiamo i caffè e gli sgroppini.
Al momento degli ammazzacaffè, si parla di cibo. Qualcuno nomina una bio osteria “ca-ri-nis-si-ma” che sta in collina.
“Lì vicino conosco un posto dove fanno un menù tutto a base di cavallo” butto lì, così, senza pensare. Giusto per dir la mia. Nulla di più.
Lei, che non stava parlando, si protende verso di me, quasi alzandosi dalla sedia. Mi punta contro il coltello sporco di panna e tracce di pan di spagna.
“Prova solo a mangiare carne di cavallo e ti taglio la gola.”
Ride, ma non troppo, mentre lo dice.
La sorellina popputa, che le siede di fianco, si sente in dovere di chiosare: “È che ama alla follia i cavalli.”
E l’altra, insiste, tenendo sempre il coltello bisunto sulla direttrice che porta alla mia carotide: “È che per me, il cane è il miglior amico dell’uomo, mentre il cavallo il miglior amico della donna…”
A questo punto, una stilettata mi incide le sinapsi.
Il problema è che ho un motto che mi accompagna da anni. Che è diventato anche un codice pratico di condotta. Un punto di vero e proprio orgoglio.
Che dice: meglio perdere una donna che una battuta.
Così esito. Un secondo. Poi vado deciso. Guardandola in faccia. Serio.
“Lo pensava anche Cicciolina… prima di finire al Pronto Soccorso.”
Silenzio.
Catacombale.
Davvero.
E lei che mi guarda come si guarda uno che vanta una lunga tradizione di disturbi mentali in famiglia. Nulla di più. Nulla di meno.
“Okay ” dico alzandomi” s’è fatta una cert’ora”.
Arrivederci e buonanotte!
Evidentemente l’autore non sa cosa sia il materilismo dialettico.
Ovvero egli pare sapere ciò che i parroci traducevano dai pulpiti ai fedeli assetati di religiosità assoluta e di anticomunismo campagnolo.