C’è perfino la ciocca del primo taglio che la zia Fiorenza mi fece tranciando di mezzo metro la lunga chioma ricciuta e ribelle.
Quando rileggo le pagine, provo una grande struggente nostalgia, non per quei momenti di pura sofferenza, ma per quell’età della mia vita che non tornerà più. Forse è proprio quello il sentimento che ci coglie leggendo pagine di vite passate, forse solo a distanza possiamo cogliere davvero il senso profondo di ciò che è stato.
Questo non può succedere quando si scrive un diario. Nel diario, la distanza tra noi e quello che capita è talmente piccola che per tenerle alla larga, dobbiamo scaricare nelle pagine una vagonata di emozioni così calde da rischiare di ustionarci.
Il passato è un bambino che continua a vivere dentro di noi. Il passato è anche un ragazzino o un adulto ferito o felice. Le pagine di un diario mostrano i momenti in cui quel bambino è stato allegro o triste.
Un diario è un’ottima cura per tutti, per continuare a fermarsi e ad ascoltarsi, tra le tante corse del quotidiano. Per non avere l’impressione di procedere come automi, in balia degli eventi. Un quaderno, un notes grande o piccolo, un insieme di fogli bianchi, un blog.
Appunti, disegni, schizzi, immagini… e ognuno trovi il suo stile.
Il diario, più o meno disordinato, servirà certo – un giorno – a capire meglio il percorso della vita, tanti come e perché di cui abbiamo perso memoria, scelte fatte in epoche lontane.
Chiudo con una nota leggera.
Leggersi a distanza dà un indiscutibile piacere.
E a suffragio di tale constatazione, si aggiunge pure quella di un tale Ernesto:
Non viaggio mai senza il mio diario. Bisogna sempre avere qualcosa di sensazionale da leggere in treno”.
Oscar Wilde, tratta da “L’importanza di chiamarsi Ernesto”