I diari come forma autobiografica

Sulla mensola più alta della mitica Billy Ikea, svetta la collezione dei diari di famiglia. I miei sono zeppi di fatine disegnate a matita da amichette e compagni di classe con tanto di cigni, fiocchetti, cuoricini delle più varie forme e dimensioni.

​C’è perfino la ciocca del primo taglio che la zia Fiorenza mi fece tranciando di mezzo metro la lunga chioma ricciuta e ribelle.

La vista della nuca scoperta inorridì me e tutti quelli che erano abituati a vedermi con i capelli che mi arrivavano ai fianchi. Mio padre non mi parlò per due giorni. Bony, il mio filarino, mi disse che ero brutta inferendo acutamente dalla prima constatazione che avevo pure i popliti muscolosi, troppo muscolosi.
Riempii pagine di diario maledicendo il momento in cui avevo assecondato la brama della zia Florence che per anni – tanti ce n’erano voluti ad allungare i capelli fino al sedere – come un segugio in ferma sulla scia di un germano, ogni volta che mi ero seduta sulla sediolina in similpelle arancione del suo salone Florence, mi aveva chiesto se volevo dare una spuntatina. 

Quando rileggo le pagine, provo una grande struggente nostalgia, non per quei momenti di pura sofferenza, ma per quell’età della mia vita che non tornerà più. Forse è proprio quello il sentimento che ci coglie leggendo pagine di vite passate, forse solo a distanza possiamo cogliere davvero il senso profondo di ciò che è stato.

Questo non può succedere quando si scrive un diario. Nel diario, la distanza tra noi e quello che capita è talmente piccola che per tenerle alla larga, dobbiamo scaricare nelle pagine una vagonata di emozioni così calde da rischiare di ustionarci. 

Scrivere un diario è quindi come spalmarci l’anima con una di quelle pomate gialle e viscose che leniscono le scottature. Sotto lo strato lucido di balsamo è impossibile capire il segno lasciato dagli eventi. Lo si capisce molto tempo dopo, quando tutto è passato e rivediamo i bambini che siamo stati e che abbiamo solo voglia di prendere in braccio e stringere a noi. 

Il passato è un bambino che continua a vivere dentro di noi. Il passato è anche un ragazzino o un adulto ferito o felice. Le pagine di un diario mostrano i momenti in cui quel bambino è stato allegro o triste.

Un diario è un’ottima cura per tutti, per continuare a fermarsi e ad ascoltarsi, tra le tante corse del quotidiano. Per non avere l’impressione di procedere come automi, in balia degli eventi. Un quaderno, un notes grande o piccolo, un insieme di fogli bianchi, un blog. 

Appunti, disegni, schizzi, immagini… e ognuno trovi il suo stile. 

Il diario, più o meno disordinato, servirà certo – un giorno – a capire meglio il percorso della vita, tanti come e perché di cui abbiamo perso memoria, scelte fatte in epoche lontane. 

Chiudo con una nota leggera. 
Leggersi a distanza dà un indiscutibile piacere. 
E a suffragio di tale constatazione, si aggiunge pure quella di un tale Ernesto: 

Non viaggio mai senza il mio diario. Bisogna sempre avere qualcosa di sensazionale da leggere in treno”. 
Oscar Wilde, tratta da “L’importanza di chiamarsi Ernesto”


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