Per necessità e per piacere.
Necessità, ad esempio, di scaricare in un foglio l’energia che ci paralizza; di lasciare impronta del nostro passaggio; di comunicare qualcosa a qualcuno; di rendere fisico un pensiero e dare concretezza a ciò che occupa una buona parte della nostra giornata: l’immaginazione. Necessità che confina col piacere. Perché è grande il piacere che si prova compilando una pagina di diario, o vedendo crescere sotto i nostri occhi personaggi e vissuti d’inchiostro che diventano paradossalmente più veri del vero.
Che misteri nasconde la scrittura?
Probabilmente cela la nostra essenza. E se c’è un cruccio che tutti noi abbiamo, è quello di percepirne quanto meno una traccia, meglio se due. Il più possibile.
Scrivere di se è un prezioso viaggio interiore, prepara a nuovi percorsi verso panorami inediti. Uno strumento di analisi che rende più autentiche tutte le nostre storie, autobiografiche o d’invenzione che siano. Chi ha intenzione di scrivere, dovrebbe guardare alla propria autobiografia con grande attenzione.
Ecco cosa dice Kieslowsky:
Cerco di convincere i giovani colleghi ai quali insegno regia o sceneggiatura a esaminare le loro singole vite. Non tanto per scrivere un libro o una sceneggiatura ma per loro stessi. Dico sempre loro: “Cerca di pensare a cosa ti è accaduto di importante che ti ha condotto a sedere in questa sedia, in questo giorno, tra queste persone. Che cosa è successo? Che cosa ti ha portato qui? Devi saperlo. È il punto di partenza”.
Gli anni durante i quali non lavori su te stesso in questo modo, sono anni sprecati. Puoi sentire o capire qualcosa intuitivamente e, di conseguenza, i risultati sono casuali. Solo facendo questo lavoro riesci a trovare una certa relazione tra gli eventi e i loro effetti.
Ho anche cercato di capire che cosa mi ha condotto fino a questo punto, perché senza un’analisi attenta, completa e spietata, non si riesce a raccontare una storia. Se non si comprende la propria vita, penso non si riesca a capire quella dei personaggi delle nostre storie e neppure quella delle altre persone. I filosofi e gli assistenti sociali sanno che è così, ma anche gli artisti dovrebbero saperlo, almeno quelli che raccontano delle storie.
(La doppia vita di K. Kieslowski, Feltrinelli “Le nuvole”)