Per A.Z.

E così sia: ma io
credo con altrettanta
forza in tutto il mio nulla,
perciò non ti ho perduto
o, più ti perdo e più ti perdi,
più mi sei simile, più m’avvicini.

(“COSÌ SIAMO”, IX Ecloghe, I Meridiani, Mondadori, pag 230)

Vi prego non domandatemelo. Non ci voglio pensare. Io non ne voglio scrivere. Voglio togliermi dalla testa quello che mi hanno chiesto stamattina, dimenticare proprio.
Perciò passo il pomeriggio sull’alzaia, rientro, ceno con lo stereo a pieno volume, per dribblare meglio quel pensiero. Ecco che dopo essermi messa il pigiama ed essermi lavata i denti fino a farli sanguinare, mi infilo sotto le coperte. Leggerò un po’ della Nemirovsky, un po’ della Szabó, un po’ della Paley. Ma nessuna di queste tre scrittrici mi porteranno abbastanza lontano dal tarlo che questa mattina mi hanno infilato in testa. “Vuoi scriverne tu qualcosa?” No! E mentre sfoglio le ultime pagine de La ballata di Iza, dopo avere letto la quarta di copertina della Suite francese, mentre con la mano sinistra mi appresto a prendere Piccoli contrattempi del vivere quotidiano della Paley, ecco che la destra si abbassa a mia insaputa a raccogliere qualcosa sul pavimento. Una Faber Castle 3B, punta morbida. Insofferente ma anche rassegnata, mi alzo e vado a prendere in studio un foglio di carta come un ubriaco si porta un asciugamano in camera prevedendo gli effetti del troppo vino nello stomaco…
So già, so già come finisce. Che appena spengo l’interruttore della lampada Ikea che illumina la mia parte del letto, appena mi rimbocco le lenzuola e la copertina di pile in questo maggio che non vuole arrivare, io so già che qualcosa mi chiamerà. So che sarà e so che cos’è. Chi è.
Eppure ce l’avevo messa tutta.
E va be’, due paroline. Lo faccio per gli amici. Forse anche per me, forse servono soprattutto a me, non l’ho mai fatto stranamente, fino ad ora. Non l’ho mai fatto, forse perché tutto rimane vivo fino a quando non ne scrivi. Può cambiare, evolvere, opporsi alla frottole.
Tutto si muove con te, finché sei vivo, e anche le tue parole.
Dopo, però, non si sa cosa sarà delle tue parole, in mano d’altri. Mica puoi difenderti dalle tue parole in mano d’altri.
Queste parole, le mie, non so dove mi porteranno, se diranno qualcosa di utile. Quello che so di queste parole è che sono intime e piene di pudore.

Bene. Parlare di cosa?
Non certo del poeta. Dell’uomo sì, ecco qualcosa posso dire, cose piccole, domestiche, creaturine che stanno in un palmo.
Posso parlare di un ombrello scalcagnato che ho nel baule della macchina. Nero, su una stecca, il nido bianco e setoso di un insetto.

“Che sia da prendere un ombrello?”
“Meglio, va’. Prendi il più grande. Ha una stecca rotta ma può andare.”


Ma che man che ghe vól,
che soramànego che zhata,
par far un ombrelin squasi da sposa
de ‘na onmbreleta vecia e meda in tòch…

(“JUSTAONBRELE”, Idioma, I Meridiani, Mondadori, pag 789.)

“Se la sente di camminare?”
“Due passi sotto questa pioggerellina non mi faranno mica male. C’è una bella arietta primaverile… Be’ ma piove parecchio sacra… sacra…”
“Sacramento?”
“Sacrafresco, tipo. Ma guarda che schifoso di tempo”.
“Che direzione si prende?”
“Di là, guarda che scorcio, guarda giù in fondo che meraviglia. Il Montello… mi dà un senso di calma tutto questo. E ancora piove. Ma è primavera ormai!”

Ormai la primula e il calore
ai piedi e il verde acume del mondo

I tappeti scoperti
le logge vibrate dal vento e il sole
tranquillo baco di spinosi boschi

(“ORMAI”, Dietro il paesaggio, I Meridiani, Mondadori, pag 46)

Parlare sì, parlare abbiamo parlato, seduti io su una sedia e lui sul divanetto di velluto carta di zucchero del pianterreno, la stanza di fronte alla doppia porta d’ingresso, una in vetro, davanti a cui ho indugiato tante volte prima di bussare. Quel giorno, rinorrea e qualche colpetto di tosse lo infastidivano. “Finirà l’inverno?” Oltre la tendina operata bianca, tra il grigio e il bianco del cielo, oltre i rami ancora rinseccoliti dal freddo, se si escludeva il calicantus che profumava il giardino, c’era uno sprazzo di azzurro come il primo rinsanguare nel volto di un convalescente.

Qualche flash, al modo di Perec, un breve elenco di “mi ricordo” che mi riaccompagnano con molta nostalgia dentro un’altra vita:

Mi ricordo la strada verso Pieve di Soligo, il Piave con le sue acque che paiono ghiaccio sciolto, azzurrine sopra i ciottoli bianchi del greto.
Mi ricordo la lenta, dolce risalita da Ponte della Priula verso Colfosco, Barbisano, le strade strette tra frassini, robinie, noccioli e sanguinelle.
Mi ricordo la casa di via Mazzini, ombreggiata dalla vegetazione.
Mi ricordo una finestra illuminata nella notte, un giardino muto, coperto di neve.
Mi ricordo le doppie porte del pian terreno, il campanello come l’interruttore della luce.
Mi ricordo il gatto bianco e nero, Butin, che dormiva sulla sedia di vimini sotto il portico.
Mi ricordo il gatto che sale pigramente le scale per poi rimanere sussiegoso sul primo gradino vicino alla balaustra.
Mi ricordo questi versi pronunciati alla vista del gatto:

il meraviglioso sbadiglio
del selvaggio Uti
sbarra di fronte ad ogni situazione
i meati ignoti del suo sentire
Pallas si potrebbe dire

(Così furono pronunciati)

Mi ricordo Uti totalmente indifferente alla statura epica dei versi: “Uti vieni qua, canaglia! Canaglia! Hai proprio uno sguardo impassibile!”
Mi ricordo di un’altra gatta, l’ultima, che si stende sul pullover grigio succhiandone la lana.
Mi ricordo i maglioni rossi e le giacche e i pantaloni grigi e sale e pepe.
Mi ricordo le mani piccole, l’indice che cerca, tra tante, una parola, una frase tra le pagine di un libro, strizzando gli occhi.
Mi ricordo le bretelle rosse sopra una polo a righe azzurre e blu.
Mi ricordo di Nino Mura, Carlo Conte, Toti dal Monte, Parise, Gadda. Mi ricordo che diceva di Ungaretti e Montale che, nominato il Nobel per la letteratura, gridavano in piazza: “Hanno premiato una merda!”
Mi ricordo le Suites inglesi, La passione secondo Matteo, Creola dalla bruna aureola e l’Adagio di Albinoni.
Mi ricordo i pacchi di libri sul tavolo di legno di fronte al caminetto spento.
Mi ricordo i pacchi di lettere sullo stesso tavolo.
Mi ricordo i pacchi di fogli, una grafia minuscola, un poco spigolosa, con la Bic blu.
Mi ricordo la ciotola dei bonbon.
Mi ricordo le interminabili consultazioni farmaceutiche su forme e dosaggi antistaminici, benzodiazepinici.
Mi ricordo lo studio delle combinazioni possibili, gli aggiustamenti quotidiani delle posologie.
Mi ricordo che dovevo inventare una sostanza magica per rinforzare le gambe e le dita delle mani, soprattutto il mignolo, e che non l’ho mai inventata.
Mi ricordo una videocassetta in cui un bambino con gli occhi marroni viene intervistato sull’argomento “treni”.
Mi ricordo una sciarpetta di panno nocciola a quadri, un cappello e un cappotto scuro, mi ricordo due mocassini comodi e dei passetti piccoli.
Mi ricordo una voce fragile, che si schiarisce di continuo, mentre legge una poesia sollevando una mano.
Mi ricordo del pensiero della consegna delle carte all’archivio di Pavia: le poesie, il diario giornaliero con riflessioni, qualche verso, spunti, lettere private e corrispondenza pubblica.
Mi ricordo la lettura scherzosamente solenne di Neve sublime più galaverne.
Mi ricordo l’avversione per la parola “intervista”.
Mi ricordo la sfilata di titoli e onorificenze, un bagaglio enorme, liquidato con un sorrisetto sornione, dondolando la testa.

Mi ricordo un disperato amore per il paesaggio e la sua sacralità. L’afflizione per l’oltraggio degli spazi, dalla linea perfetta dei colli delle Prealpi, ai prati che andava visitando censendo papaveri, topinambur, glicini, mieli di piume e d’uova, ranuncoli e il loro divenire erbuccia e filo (“PASQUA DI MAGGIO”, Pasque, I Meridiani, Mondadori, pag 438), e poi acqua e nubi grigie e pervinca, e rugiade e viola e oro e molle (“ANTICICLONI, INVERNI”, Fosfeni, I Meridiani, Mondadori, pag 697 ). Tutto recensiva, a piccoli passetti, con silenzi di un nobile antico eremita, tutto viveva come graffi e morsi sulla carne e sulla psiche. Era l’amarezza per un’armonia perduta, per la bellezza infranta, per un’arcadia divenuta set di horror metafisici fatti di capannoni, fabbriche, cementificazione selvaggia.

Mi ricordo che con una mano tiene il bavero del cappotto e con l’altra punzecchia la terra bagnata con la punta dell’ombrello, scrolla le gocce di pioggia da una pianta di rosa canina.

Mi ricordo quando mi hanno telefonato.

Ecco qualcosa è detto. Ma Zanzotto è molto di più di quello che si riesce a dire.  
Cacciari diceva: “Il testimone della letteratura del ‘900, avvicinabile solo da James Joyce, un grande amico”.
Magrelli diceva “Heidegger e Lacan come fertilizzanti della sua terra, degli orizzonti entro cui sorge la sua lingua”.
Il poeta civile, il poeta guerriero, il poeta del paesaggio, l’immenso candidato al Nobel, post neoavanguardista, e molte altre cose al seguito.

Magari avevano ragione tutti, chi lo può dire, ma secondo me avevano anche torto perché, secondo me, Zanzotto è molto di più.
Ed ora chiedo scusa a tutti. Devo fermarmi qui.

DISTANZA

Or che mi cinge tutta la tua distanza
Sto inerme dentro un’unica sera

Odora il miele sulla mensa
e il tuono è nella valle,
molto affanno tra l’uno e l’altro

Io sono spazio frequentato
dal tuo sole deserto,
vieni a chiedermi dove
gridami solitudine

E questo azzurro guasto di sgomenti
e di luce di monti
per sempre m’ha appreso a memoria.
(“DISTANZA”, Dietro il paesaggio, I Meridiani, Mondadori, pag 52)

Testo di Bruna Graziani

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