E siccome di storie in testa ne abbiamo a bizzeffe, potremmo scriverne per una vita intera, se solo avessimo il tempo per farlo, se solo volessimo farlo.
Scrivere un racconto è come eseguire una ricetta, ci vogliono dosi e ingredienti giusti. La ricetta prevede un’idea e buone quantità di determinazione (scrivere è faticoso) e coraggio perché lavorare con le nostre parole ci catapulta dentro un vortice di incertezze che in certi momenti sentiamo insanabili. Ci rende insicuri, vulnerabili. Le nostre parole sono ‘corpo’ che cresce e si trasforma con noi. E noi del nostro corpo abbiamo sempre un grande pudore e spesso ce ne vergogniamo pure un poco.
Eppure è lui che ci fa camminare e crescere. Fa muovere le nostre mani, appendice di una mente che pensa, pensa, pensa. Ma anche produce, si impegna, crea.La maggior parte del nostro tempo mentale viene impiegato a fantasticare. Personaggi, case, ascensori, prati, vestaglie rosse, pianoforti, tempeste, guerre. Provate a combinare tutti questi elementi scelti a caso: ne uscirebbe una nuova storia e c’è pure il rischio che vi regali qualche gioia. |
E non è solo una tecnica, ma anche un’arte, difficile da definire perché ha a che fare con la vita, e nei suoi confronti non possiamo essere che perenni apprendisti.
Scriviamo quindi, e impariamo qualcosa in più, di noi, degli altri. Abbiamo il diritto di farlo, il diritto di provare piacere in ciò che facciamo, di amare vicende e situazioni che nascono dalle nostre penne, dai nostri corpi, dai sensi – imprescindibili per ogni narrazione – dalla nostra fantasia. Tutto può diventare pretesto per scrivere: ogni personaggio, ogni stanza della nostra casa (o di una casa immaginaria) da descrivere nell’odore di muffa o lavanda, nel cigolio delle porte, nello scricchiolio del pavimento, nel bianco delle pareti o nel verde del giardino alberato.
Lasciamo stare il pudore: abbiamo studiato, faticato, cancellato e riscritto.
Di viaggi in passati familiari non sempre facili; di sentori di rosmarino e mondi dell’infanzia a cui si ritorna per ritrovarsi; di lotte incessanti contro avversari a cui non daremo mai la vittoria; di pellegrinaggi sentimentali in montagne che trasudano odori, sapori, umanità; di rocambolesche avventure scaturite da equivoci; di improbabili – eppure efficaci – rimedi per guarire pesciolini; di rimorsi mai sopiti per parole non ascoltate; di ricordi che fanno ancora male in una Venezia ipnotica; di amori brasiliani, occhi scuri e divinità del mare; di fiabeschi concerti-buongiorno degni di Carroll.
È il momento del premio meritato: il congedo. È il nostro racconto che dobbiamo congedare (non la penna). L’abbiamo creato e lui deve andare, muoversi. Magari, inizialmente, tra gli scaffali della nostra libreria, sopra i tavoli dei nostri amici, i divani dei genitori. Ma noi non sappiamo tutto di quello che ai nostri personaggi succederà: capita anche che qualcuno di più energico, opportunamente allenato, abbia intenzione di fare un viaggio più lungo, oltre i muri di casa. Deve andare e lasciare spazio per altri personaggi, altre storie da raccontare. Con la stessa fatica e lo stesso coraggio e forse, un pizzico in più di consapevolezza. Che è ingrediente che nella famosa ricetta di cui sopra, deve diventare sempre più abbondante. Scrivere, riscrivere, fallire, ripartire, farcela.
Perché, è proprio vero: quando hai una storia in testa, puoi imparare a raccontarla.